Psicoterapia per il disturbo di panico e agorafobia

Disturbo di panico e agorafobia sono due disturbi d’ansia distinti. Perché quindi qui vengono trattati assieme? Perché se analizziamo i meccanismi che provocano e mantengono questi due disturbi, non solo vediamo ampie sovrapposizioni ma scopriamo anche che il panico è il motore dell’agorafobia.

Nel disturbo di panico la sofferenza e il disagio sono date dagli attacchi stessi e dalla paura di averne ulteriori. Nell’agorafobia, invece, il problema è dato dalle limitazioni che la persona ha reso abituali per evitare di incorrere in queste crisi d’ansia. Non si tratterà quindi di un problema di panico perché oramai il paziente ha ben imparato a girare al largo da quelle situazioni che possano provocargli un attacco.

Dato che i due disturbi sono originati dagli stessi meccanismi, la cura è simile. Trattiamo quindi i due disturbi qui assieme come viene anche raccomandato dalle linee guida della sanità inglese, universalmente considerata la più autorevoli in ambito di salute mentale. Ovviamente vi sono poi delle accortezze nel confezionare il trattamento su misura in base non solo al tipo di disturbo ma anche alle caratteristiche individuali dello specifico paziente.

Scopi del trattamento

  • Comprendere il funzionamento di panico e agorafobia
  • Imparare a controllare la respirazione
  • Imparare a rilassarsi 
  • Analizzare e modificare il pensiero
  • Ridurre le limitazioni date dal disturbo (ad es., prendere mezzi pubblici, guidare, ecc.)
  • Ridurre la vulnerabilità al disturbo per prevenire future ricadute

Come funziona la psicoterapia per il disturbo di panico e agorafobia

La terapia che offriamo a Psicoterapia Scientifica è la più efficace secondo le linee guida internazionali per il disturbo di panico e l'agorafobia. Le linee guida raccolgono e sintetizzano le evidenze scientifiche per poter consigliare come procedere al meglio in base al tipo di problema.

Come ogni trattamento si parte da un’attenta analisi del problema e della persona. Sono tutt’altro che rari in casi in cui vi siano altri problemi da gestire, come la depressione. Questa parte prende il nome di assessment e serve a comprendere sia il disturbo che il paziente per intervenire nella maniera più accurata per il caso specifico.

Finita la fase di valutazione si inizia la terapia vera e propria. Il professionista che ti segue ti aiuterà a capire il problema e il suo funzionamento. Per esempio, vi sono quasi sempre dei tentativi di controllarlo che lo fanno peggiorare. Poi ti insegnerà a ridurre le sensazioni di ansia e panico tramite degli esercizi per controllare la respirazione e la tensione muscolare. In seguito si definiranno le situazioni (ad es., stazione dei treni, strade trafficate, ecc.) e/o le sensazioni fisiche (ad es., sensazione di soffocare, di perdere il controllo, di avere un infarto) che possono causare le crisi. Li si inizierà a lavorare su due fronti. 

  1. Con un approccio comportamentale: iniziando delle esposizioni graduali, ovvero degli esercizi in cui si fronteggiano situazioni o sensazioni temute. Si inizia un passo per volta, andando anche fuori dallo studio se serve. Lo scopo non è “affrontare la paura” di situazioni ingestibili, ma iniziare a restare in situazioni che provocano poca ansia fino a che non ti sei abituato. 
  1. Con un approccio cognitivo: insegnandoti tecniche per diventare consapevole dei "pensieri automatici" di cui spesso non hai consapevolezza e che ti provocano ansia facendo scattare il panico. Dopo che imparerai a notarli, il tuo terapeuta ti guiderà nella successiva modifica di questi pensieri. Imparerai a rispondere ai tuoi pensieri in modo diverso e a dargli meno peso. Nel fare questo si scovano e si definiscono a parole alcune convinzioni “inconsapevoli” che ti portano ad avere crisi di panico, per poi discuterne e metterle alla prova per modificarle.

Altre opzioni

Passiamo adesso in rassegna le alternative che si possono incontrare quando si vuole affrontare un disturbo di panico o l'agorafobia.

La seconda scelta: il trattamento farmacologico con SSRI

Si è detto della scoperta dell’attività antipanico dell’imipramina già nel 1959. Nella gestione del disturbo di panico sono stati quindi usati gli antidepressivi triclicici, che rendono meno facile l’attivazione del locus coeruleus. Raggiungono il loro massimo effetto verso le 10-12 settimane, ma già nelle prime 4-6 settimane consentono miglioramenti sostanziali. A piene dosi vengono somministrati per 12-24 mesi e quindi ridotti e sospesi. In realtà gli studi hanno mostrato che percentuali elevate di pazienti (anche il 50%!) li sospendevano, a causa dei molteplici effetti secondari: aumento di peso, bocca secca, disfunzioni sessuali, ipotensione ortostatica, sonnolenza, tachicardia.

Negli anni ‘90 gli antidepressivi triclicici furono soppiantati da una nuova famiglia di antidepressivi, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, meglio noti con l’acronimo SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors). La serotonina è un neurotrasmettitore, ovvero un “gettone” che permette l’attivazione e modificazione del funzionamento di molteplici aree del cervello. Il nome Selective Serotonin Reuptake Inhibitors indica il modo in cui questi farmaci operano. Inibiscono il riassorbimento della serotonina a livello delle sinapsi (parti in cui le cellule del cervello si toccano e comunicano). In poche parole fanno in modo che vi sia una maggiore quantità di serotonina disponibile. I farmaci capostipiti furono la fluoxetina (Prozac) e la fluvoxamina (Fevarin, Maveral), ai quali presto si aggiunsero paroxetina (Sereupin, Seroxat), sertralina (Zoloft), citalopram (Seropra) ed escitalopram (Cipralex, Entact). La durata del trattamento antipanico non dovrebbe essere inferiore a 6-8 mesi, mentre la durata ottimale è di 12-24 mesi, con una riduzione graduale di 4-6 mesi (la sospensione brusca causa una serie di disturbi).

L’effetto dei farmaci, si badi bene, non è immediato. I primi benefici si avvertono dopo 2-4 settimane. Gli effetti collaterali includono nausea, calo dell’appetito, cefalea, calo della libido, disfunzione erettile, anorgasmia, ma sono estremamente variabili, ad es. ad alcuni tali farmaci danno sonnolenza, ad altri insonnia. Alcuni effetti secondari sono transitori e limitati alle prime settimane, comunque nel complesso sono minori rispetto ai triciclici. Oggi sono considerati i farmaci di “prima linea” (ovvero di prima scelta) per il trattamento farmacologico del panico e la loro efficacia è indiscutibile.

Ultimi arrivati, in questo secolo, sono degli antidepressivi che all’azione sulla ricaptazione della serotonina aggiungono quella su un ulteriore importante neurotrasmettitore, la norepinefrina (perciò l’acronimo diventa SNRI (Serotonin Norepinephrin Reuptake Inhibitors): venlafaxina (Efexor) e duloxetina (Cymbalta).

Gli ansiolitici non rappresentano una scelta saggia

Si è visto che i farmaci di prima linea per il panico sono gli SSRI, che sono antidepressivi e non ansiolitici. Già all’epoca di Klein le benzodiazepine erano riconosciute come poco utili con gli attacchi di panico. Si aggiunga che una percentuale rilevante di pazienti con disturbo di panico ha una comorbilità di depressione e che, in presenza di depressione, le benzodiazepine non alleviano ma potrebbero esaltare i disturbi.

Ciononostante, esistono in Italia, come in altri Paesi, molti dati sconfortanti, secondo i quali le benzodiazepine sono il farmaco più frequentemente assunto nei casi di panico. Verosimilmente, questo consumo è dato, più che da prescrizioni, dall’autoprescrizione. Dopotutto sono molte le famiglie in cui circolano Valium e Tavor. 

Nei decenni recenti furono sintetizzate le cosiddette “benzodiazepine ad alta potenza” e attualmente ne sono in uso due: alprazolam (Xanax) e clonazepam (Rivotril). Esse sono comunque sconsigliate esplicitamente da linee guida come quelle del sistema sanitario inglese (NICE) e dell’American Psychiatric Association, che si esprimono con parole pressoché identiche: 

Nel lungo termine le benzodiazepine sono associate con esiti meno favorevoli e non dovrebbero essere prescritte per il trattamento di persone con disturbo di panico.

Questo scetticismo è dovuto, da un lato, dalla superiorità degli antidepressivi, dall’altro, da effetti secondari importanti: eccessiva sedazione, rischi alla guida, pericoli di abuso, difficoltà alla sospensione.

Il trattamento combinato è inutile

Verrebbe da pensare che i benefici dell’uno si sommino ai benefici dell’altro trattamento e quindi si abbiano percentuali maggiori di successi. Invece, siamo in presenza di una strana forma di aritmetica – così si esprimeva un grande studioso, Stanley J. Rachman – dove 2 + 2 non fa 4 ma sempre e soltanto 2. In altre parole, non ci sono vantaggi nell’abbinamento dei due trattamenti.

Questo è un dato forte e difficilmente potrà essere smentito in tempi brevi. Infatti, è un quesito che si è posto ripetutamente via via che farmaci più efficaci venivano prodotti e/o protocolli di trattamento psicoterapeutico venivano perfezionati. Le sperimentazioni mettevano a confronto gruppi di pazienti trattati col solo farmaco, pazienti trattati solo col protocollo psicoterapeutico, pazienti sottoposti ad ambedue i trattamenti. Con monotona ripetitività i risultati mostravano, a termine del trattamento, miglioramenti sostanzialmente equivalenti nei tre gruppi. Il trattamento combinato è dunque solo uno spreco di tempo, denaro e risorse: non è questo il modo con cui si possa andare oltre i benefici e le percentuali di guarigioni che si raggiungono nella modalità farmacologica o in quella psicoterapeutica. Naturalmente non parliamo di qualsiasi trattamento farmacologico, ma solo di quelli di più comprovata efficacia, che abbiamo visto collocarsi nella famiglia degli SSRI. Così non parliamo di qualunque intervento psicoterapeutico, ma di quelli di più comprovata efficacia, che sappiamo collocarsi nella tradizione cognitiva e comportamentale.   

Nel lungo periodo le cose sono diverse. Il problema principale diventa, nel lungo periodo, quello delle ricadute. Sotto questo punto di vista, come sappiamo, i trattamenti farmacologici hanno tassi di ricadute significativamente più alti. Il trattamento combinato tende ad allinearsi a quello farmacologico e quindi ad avere meno guarigioni durature di quello psicoterapeutico (appropriato e di tipo avanzato).

Lo stato della ricerca su questi temi è eccellente e disponiamo di meta-analisi ovvero ricerche che sintetizzano centinaia di studi scientifici affidabili.

Eppure nei servizi sanitari e nella pratica in libera professione è molto comune incontrare il trattamento combinato. Come mai?

La logica del trattamento combinato è stata ironicamente sintetizzata da una brillante metafora: c’è un uomo, preoccupato di non perdere i pantaloni, perciò indossa sia cintura sia bretelle. È vero che molti pazienti non rispondono ai farmaci, è vero che altri pazienti non rispondono ai trattamenti psicologici; utilizzando entrambi i trattamenti dovrebbe aumentare la probabilità che almeno uno dei due interventi funzioni. Ma abbiamo visto che così non è. 

La diffusione del trattamento combinato nei servizi sanitari e nella professione è in massima parte legata a dinamiche di potere – sarebbe ingenuo negarlo – e il doppio trattamento rappresenta una soluzione salomonica che evita conflitti fra professionisti. Si aggiunga che il trattamento psicoterapeutico più diffuso e più comunemente disponibile non è quello appropriato: gli psicoterapeuti che adottano modelli obsoleti o comunque privi di evidenze d’efficacia per il trattamento del panico sono, in percentuale, molti di più degli psichiatri che adottano prassi terapeutiche obsolete o farmaci privi d’efficacia.  

Diverso discorso va fatto per quella che viene detta “terapia sequenziale”: trattamento farmacologico con benzodiazepine ad alta potenza per due settimane, inizio del trattamento psicologico e graduale sospensione dei farmaci. Il tutto si conclude nell’arco di 6-8 settimane. Ha senso nei casi più gravi. Esistono casi dove il disturbo è particolarmente intenso, dove l’ansia è alle stelle e impedisce il sonno, il lavoro e qualsiasi forma di attività, dove il paziente arriva a sollecitare un ricovero psichiatrico e non vi è lo spazio per quel tanto di introspezione e di collaborazione che una terapia psicologica richiede.

Un’ultima parola circa il trattamento combinato. Rischia di essere controproducente se non si ha un buon coordinamento tra i due diversi specialisti che intervengono sul medesimo paziente. Avviene sovente che non si parlino, come avviene sovente che ciascuno ritenga centrale il proprio intervento e meramente ancillare l’altro. 

La terza scelta: l’auto-aiuto

Nel caso in cui il paziente rifiuti sia la terapia psicologica sia quella farmacologica, rimane disponibile solo la cosiddetta “autoterapia”. Una prima forma di autoterapia è detta “biblioterapia” e consiste nel far riferimento a un manuale di auto-aiuto. Il clinico potrà consigliare uno dei tanti manuali che sono stati prodotti nell’ambito dei due modelli di trattamento cui abbiamo accennato: Barlow o Clark. Il paziente va aiutato nella scelta, altrimenti potrebbe farsi del male e venire irretito da una pubblicità aggressiva o da una copertina accattivante. Il manuale non dà solo informazioni, ma propone via via una progressione di esercizi utili. Il clinico può tenere contatto col paziente per via telefonica, chiedere dei feedback dei progressi sperati, fornire delucidazioni utili.

Sempre utile è l’attività fisica e va sempre caldamente raccomandata. Parliamo di almeno un’ora al giorno di sport, di movimento e esercizio fisico di moderata e media intensità. L’esercizio fisico è notoriamente un aiuto per l’umore e anche il nostro paziente non può che trarre beneficio dal miglioramento del tono dell’umore. Nel caso del panico si può confidare in un beneficio ulteriore. La sollecitazione di intense sensazioni fisiche in palestra, in bicicletta, sul campo sportivo o altrove può attenuare la preoccupazione per alcune delle sensazioni fisiche che la persona teme come precursori del panico.

Nel caso dell’autoterapia è comunque raccomandato un contatto personale col clinico almeno ogni 4-8 settimane. Le evidenze di efficacia dell’autoterapia sono fragili, ma esistono.

Domande Frequenti

Quanto è efficace la terapia per il disturbo di panico e l’agorafobia?

Si stima che, a termine di un ciclo di tre mesi di TCC, sia libero dagli attacchi il 74-95% dei pazienti e i controlli (follow-up) a distanza di 1 e 2 anni confermano la stabilità dei benefici raggiunti. Nel confronto con i trattamenti farmacologici, si hanno meno ricadute. 

Quanto dura la terapia per il disturbo di panico e l’agorafobia?

È difficile stimare a priori la durata di un trattamento senza conoscere il caso, come è difficile fare un abito su misura se non si è mai visto chi lo deve indossare. Parlando quindi di valori medi, possiamo dire che una psicoterapia per un disturbo di panico o agorafobia può durare 10-20 sedute. Bisogna tenere conto di diversi fattori che possono rallentare i progressi, tra i più comuni possiamo citare: pazienti che non si dedicano alla pratica degli esercizi concordati tra le sedute, ulteriori disturbi associati (ad es., depressione maggiore, altri disturbi d’ansia, disturbi di personalità), cronicità del disturbo (ad es., iniziato 30 anni prima di chiedere aiuto).

Perché insistiamo su questi protocolli di trattamento, invece di parlare di una qualsiasi psicoterapia di orientamento cognitivo e comportamentale?

Non sono specificazioni di poco conto. Per un paziente è già difficile individuare uno psicoterapeuta di formazione cognitiva e comportamentale, figuriamoci entrare nei dettagli della sua formazione e competenza. Si parla di CBT perché i suddetti protocolli sono stati sviluppati all’interno di tale cornice teorica e perché gli psicoterapeuti in grado di utilizzare detti protocolli sono in massima parte psicoterapeuti di formazione cognitivo-comportamentale, ma non dobbiamo cadere nelle generalizzazioni. Alla pari della scena psicoanalitica, anche quella cognitiva e comportamentale è molto ampia e diversificata. In parte delle scuole di specializzazione cognitive e/o comportamentale non è previsto l’apprendimento delle tecniche implicate in detti protocolli, anzi, la maggior parte dei professionisti che si dichiarano cognitivi e comportamentali o le ignora o (non senza una certa presunzione) sceglie di non utilizzarle.

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