In tutto il mondo sempre più giovani faticano a gestire le pressioni della società, alcuni interrompono gli studi o abbandonano il lavoro, si chiudono nella loro camera e occupano gran parte del loro tempo immersi in un mondo virtuale. La motivazione ad affrontare il mondo esterno diminuisce fino a scomparire. Alcuni non escono dalla propria abitazione per anni. Questi giovani vivono una condizione di autoreclusione sviluppatasi inizialmente in Giappone e che viene definita “hikikomori”.
È possibile uscire da questa condizione? Esiste una cura o una terapia elettiva?
La sindrome di hikikomori è una malattia?
Su questo tema è opportuno porsi sin dall’inizio una domanda: la sindrome di hikikomori è una malattia? Secondo Marco Crepaldi no, e quindi non ha senso parlare di cura.
L’autore del blog Hikikomori Italia sostiene che “l’hikikomori non va curato ma supportato, (…) come un padre che insegna al figlio ad andare in bicicletta, cercando di farlo camminare da solo senza mai abbandonarlo completamente” (tratto da un post del blog edito in data 3 aprile 2018). Attualmente la sindrome di hikikomori non rientra in nessuna categoria del DSM-5 (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione) e dell’ICD-10 (International Classification of Diseases; Organizzazione Mondiale della Sanità, 1992), per cui non è possibile farne diagnosi.
I sostenitori di questa posizione considerano la sindrome di hikikomori come uno stile di personalità e una scelta di vita che va accettata finché questa non porta ad un pericolo per la salute della persona o degli altri. Nella società odierna, soprattutto in quella Giapponese, particolarmente conformista e tradizionalista, esiste effettivamente la tendenza ad etichettare come “malati” gli individui e le minoranze che non rientrano nella norma, sia che si consideri una dimensione fisica, sociale, psicologica o sessuale; la cura da questa deviazione prevede di conseguenza un riallineamento con quello che è definito “normale”. I sostenitori di questa posizione ritengono il fenomeno dell’hikikomori un esempio della diversità che caratterizza popolazione giovanile e si rifiutano di considerarlo anormale (Borovoy, 2008; Can & Lo, 2014).
Quando è necessario intervenire?
Nella maggior parte dei casi, la richiesta non proviene direttamente dal giovane hikikomori; la sua scelta è quella di rimanere dentro la propria stanza, lontano dalle dinamiche della società che lo mettono in difficoltà o che non apprezza.
Sono i genitori, allarmati del comportamento del figlio, a sentire il bisogno di essere aiutati: dopo numerosi tentativi non riusciti di fargli riprendere la scuola o farlo uscire dalla stanza, questi possono prendere contatti con un professionista sanitario (Medico di Medicina Generale, Servizio Sanitario Nazionale, psicologi e psicoterapeuti, ecc…).
In questi casi è necessario fare attenzione: la richiesta proviene da persone (committenti) diverse da chi effettivamente potrà beneficiare dell’intervento (destinatario). Per poter decidere se intervenire o meno, diventa fondamentale un’accurata valutazione della singola situazione, considerando contemporaneamente le volontà della persona autoreclusa e i rischi della sua condotta; in alcuni casi si può optare per un intervento (a maggior ragione se il figlio è minorenne) anche senza il consenso del destinatario (malattie egosintoniche che portano gravi rischi per la salute e il benessere della persona come, ad esempio, l’anoressia nervosa).
Quali tipologie di intervento sono disponibili?
Nel caso si ritenga necessario intervenire, per stabilire che tipo di aiuto poter fornire ai giovani che versano in questa condizione, ritorna utile la distinzione tra hikikomori primario e secondario. Con hikikomori primario ci si riferisce a quelle persone che non presentano altri disturbi psicologici o patologie psichiatriche che spieghino l’auto-reclusione; con hikikomori secondario vengono identificati coloro che sono affetti anche da un’altra patologia (es. depressione, ansia, schizofrenia).
Se dopo un’attenta valutazione clinica viene diagnosticato un disturbo psicologico rilevante come quelli sopra elencati, potrebbe essere opportuno fornire un trattamento combinato, sia psicoterapeutico che farmacologico, valutando l'ospedalizzazione solo nei casi più estremi.
Nei casi in cui non è presente invece nessuna altra condizione rilevante dal punto di vista clinico, possono rivelarsi utili colloqui psicologici e consulenze a distanza, visite domiciliari con interventi brevi di psicoterapia e successivamente terapia di gruppo o familiare in un contesto ambulatoriale.
L’obiettivo comune a tutti gli interventi rimane in ogni caso quello di interrompere la situazione di isolamento fisico e sociale, portando l’hikikomori ad uscire dal proprio ambiente “sicuro” e spingendolo ad assumere un ruolo attivo nella società (ad esempio, mediante un ritorno nell’ambiente scolastico o lavorativo). Per raggiungere questo scopo sono disponibili interventi psicologici, farmacologici e di natura psicosociale.
Intervento psicologico per l'hikikomori
Solitamente la prima richiesta d’aiuto proviene dai genitori, preoccupati per la situazione di loro figlio; il professionista contattato dovrà fornir loro consulenze mirate ad accogliere le preoccupazioni e a fornire indicazioni rispetto a quali comportamenti mettere in atto e quali evitare.
In un secondo momento, nel caso in cui sia riuscito l’aggancio con il figlio e quest’ultimo abbia dato la propria disponibilità, i genitori verranno coinvolti nella terapia vera e propria, destinando all’intero nucleo familiare incontri specifici. Un lavoro sul contesto, sulla famiglia e sulle relazioni in generale, oltre ad un percorso di psicoterapia individuale, risulta fondamentale (Ranieri, 2016).
Possiamo quindi distinguere due piani di intervento, uno familiare ed uno individuale.
L’intervento individuale può essere inizialmente effettuato ricorrendo alla tecnologia, attraverso colloqui psicologici a distanza mediante piattaforme di comunicazione VoIP, come ad esempio Skype. In alcuni casi sarà possibile recarsi sin da subito a casa del giovane ed iniziare una terapia a domicilio.
In questa prima fase l’intervento sarà principalmente motivazionale: aiutare la persona a ritrovare la propria dimensione all’interno della società farà sì che questa formuli obiettivi che inevitabilmente la costringeranno ad uscire dalla propria stanza. La mancanza di obiettivi e la tendenza ad evitare le situazioni sociali diminuiscono di fatto la possibilità che la persona possa ottenere piccole soddisfazioni (rinforzi), contribuendo così a mantenere l’umore depresso.
La psicoterapia cognitiva e comportamentale permette di focalizzare l’intervento sia sulla componente cognitiva (traumi infantili, bassa autostima, credenze irrealistiche ed errori di ragionamento) che su quella comportamentale (strategie di coping inadeguate, evitamento delle situazioni temute, ecc…). Questo approccio prevede infatti esercizi di esposizione alle situazioni sociali, con grado di difficoltà via via sempre maggiore (partendo da una passeggiata attorno a casa per arrivare a vere e proprie interazioni con altre persone), e una ristrutturazione cognitiva dei pensieri che bloccano la persona.
Quando l’autostima e la motivazione del giovane saranno sufficienti, il terapeuta può valutare l’inserimento della persona in un piccolo gruppo di pari, un contesto protetto dove stimolare le interazioni reciproche e permettergli di mettere in atto quanto appreso nella terapia individuale.
Intervento farmacologico per l'hikikomori
Il trattamento farmacologico viene accostato alla psicoterapia solo nei casi in cui viene rilevata sintomatologia appartenente ad alcuni disturbi psicologici, come ad esempio disturbo ossessivo-compulsivo, disturbi dell’umore o disturbi d’ansia (hikikomori secondario).
Gli unici dati presenti in letteratura fanno riferimento all’utilizzo di antidepressivi: in un caso clinico descritto la paroxetina è risultata efficace in un paziente con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo che si era ritirato nella sua stanza per 10 anni (Shibata & Niwa, 2003). Le evidenze tuttavia non sono sufficienti a stabilire una terapia di prima scelta.Intervento che mira alla socializzazione
Coloro che invece non presentano disturbi psicologici (hikikomori primario) possono beneficiare di interventi di natura psicosociale, che fanno della socializzazione strumento e obiettivo. Questi programmi mirano ad accrescere le competenze psicologiche ed emotive degli hikikomori invece di etichettarli come “malati”; tra questi possiamo elencare training per le abilità sociali (Borovoy, 2008; Teo, 2010), training per la gestione emotiva (Hattori, 2006) e training per le abilità interpersonali (Wong, 2009).
In Giappone e nel sud-est asiatico, negli ultimi anni sono state fondate numerose organizzazioni no profit che, per aiutare i giovani autoreclusi, si avvalgono di particolari figure, le “rental sisters”, letteralmente “sorelle in prestito”. Queste ragazze, adeguatamente formate dall’associazione, tentano di stabilire un contatto con l’hikikomori, inizialmente attraverso messaggi, mail o telefonate al cellulare, fino ad arrivare ad entrare in casa e comunicare attraverso la porta chiusa della camera del ragazzo. Mirano a costruire una fiducia sempre maggiore nei loro confronti, per poi stimolare il loro interlocutore ad uscire dalla camera e più in generale dalla situazione in cui si trova in quel momento; prima che ciò accada possono essere necessari mesi di visite, se non addirittura anni.
L’obiettivo finale è spingere l’hikikomori a frequentare ambienti condivisi da altre persone nella sua stessa situazione e ad impegnarsi in diverse attività svolte in piccolo e grande gruppo; questo approccio mira a far sì che la persona non si senta sola nella propria condizione e che possa addirittura imparare da altri giovani più esperti.
Conclusioni
Ad oggi, nonostante siano stati condotti numerosi interventi terapeutici, non sono state raccolte sufficienti evidenze scientifiche per stabilire quale sia la migliore cura o terapia per la sindrome di hikikomori. L’indicazione rimane dunque quella di rivolgersi ad un professionista della salute mentale affinché predisponga uno studio accurato della singola situazione, in modo da definire di volta in volta il percorso terapeutico migliore.
Approfondimento: Psicoterapia
Cerchi aiuto per te o un tuo caro?
Bibliografia
- American Psychiatric Association, Biondi, M., & Maj, M. (2014). DSM-5: manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali: text revision. Raffaello Cortina.
- Borovoy, A. (2008). Japan’s hidden youths: mainstreaming the emotionally distressed in Japan. Culture, Medicine, and Psychiatry, 32(4), 552-576.
- Chan, G. H. Y., & Lo, T. W. (2014). Hidden youth services: What Hong Kong can learn from Japan. Children and Youth Services Review, 42, 118-126.
- Hattori, Y. (2006). Social withdrawal in Japanese youth: a case study of thirty-five hikikomori clients. Journal of Trauma Practice, 4(3-4), 181-201.
- Ministero della Sanità. (2000). Classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati. Decima revisione. Roma.
- Organizzazione Mondiale della Sanità. (1992). The ICD-10 classification of mental and behavioural disorders: Clinical descriptions and diagnostic guidelines. Ginevra: Organizzazione Mondiale della Sanità.
- Ranieri, F. (2016). Adolescenti tra abbandono scolastico e ritiro sociale: il fenomeno degli «hikikomori». Psicologia clinica dello sviluppo, 20(2), 319-326.
- Shibata, I., & Niwa, S. (2003). Case report of the efficacy of paroxetine in a patient with obsessive compulsive disorder and major depressive episode characterized by ten years unremitting social withdrawal. Pharma Medica, 21, 61-64.
- Teo, A. R. (2010). A new form of social withdrawal in Japan: a review of hikikomori. International journal of social psychiatry, 56(2), 178-185.
- Wong, V. (2009). Youth locked in time and space? Defining features of social withdrawal and practice implications. Journal of Social Work Practice, 23(3), 337-352.